Ho mangiato troppo!

Ho mangiato troppo! Il Disturbo da alimentazione incontrollata


Il Binge Eating Disoder (tradotto in italiano come Disturbo da Alimentazione Incontrollata) è un disturbo del comportamento alimentare recentemente descritto e incluso tra le categorie diagnostiche delle psicopatologie. I soggetti affetti sono spinti da un impulso incontrollabile ad abbuffarsi, specie di carboidrati, in modo veloce e vorace, fino a sentirsi completamente sazi. Perché si possa parlare di Disturbo da Alimentazione Incontrollata debbono coesistere almeno alcuni dei seguenti comportamenti:

1.Episodi ricorrenti di abbuffate compulsive. Laddove per abbuffata si intende mangiare, in un periodo circoscritto (per esempio nell’arco di due ore), una quantità di cibo di gran lunga superiore a quella che la maggior parte delle persone mangerebbe nello stesso periodo di tempo in circostanze simili. L’abbuffata deve essere inoltre caratterizzata da mancanza di controllo sull’atto del mangiare (per esempio sentire di non poter smettere e di non poter controllare cosa e quanto si sta mangiando).

2. Gli episodi di abbuffate compulsive sono associati ad almeno tre dei seguenti caratteri: a) mangiare molto più rapidamente del normale; b) mangiare fino ad avere una sensazione di troppo pieno; c) mangiare una grande quantità di cibo pur non sentendo fame; d) mangiare in solitudine a causa dell’imbarazzo per le quantità ingerite; e) provare disgusto di sé, depressione o intensa colpa per aver mangiato troppo.

3. Le abbuffate compulsive suscitano sofferenza e disagio.

4. Le abbuffate compulsive avvengono, in media, almeno due giorni alla settimana per almeno sei mesi.

Il Disturbo da Alimentazione Incontrollata si distingue dalla Bulimia Nervosa in quanto le abbuffate non sono accompagnate da strategie per compensare l’ingestione di cibo in eccesso. Non si riscontra cioè il circolo vizioso tra i tentativi di restrizione, l’abbuffata e i comportamenti eliminativi (vomito, uso di lassativi, ecc.) tipico dei bulimici. A causa di quest’ultimo punto, i soggetti affetti sono spesso in sovrappeso. Il Binge Eating Disorder colpisce il 2-3% della popolazione generale e ben il 30% degli obesi. L’esordio si colloca perlopiù tra i 30-40 anni, con una frequenza leggermente maggiore tra le donne.

Il problema principale sembra consistere in una difficoltà a controllare l’impulso ad alimentarsi. Le cause sono ancora incerte, ma probabilmente il disturbo è legato a uno stato depressivo del soggetto. Più della metà dei pazienti, infatti, soffre o ha sofferto di episodi depressivi maggiori. A volte comunque risulta difficile stabilire se la depressione sia una causa o una conseguenza del Binge Eating Disorder. I soggetti affetti sono soliti riportare umore negativo (rabbia, frustrazione, noia, insoddisfazione, ecc.), con scarsa capacità di elaborare e, quindi, gestire tali emozioni. Ripiegano quindi sui cibi appetibili per calmarsi ed autosostenersi. E’ probabile che alla base di tali vissuti vi sia una scarsa stima di sé, per cui l’abbuffata consisterebbe in un modo per riempire il proprio vuoto affettivo interiore. Con l’aumento del peso subentra, o si rafforza, anche un’immagine fisica negativa di sé, che favorisce il senso di vergogna e, di conseguenza, l’isolamento sociale.

L’assunzione di cibi appetibili (ad esempio la cioccolata) stimola la produzione di serotonina, sostanza che agisce nel sistema nervoso centrale, favorendo una sensazione di benessere. E’ possibile che in alcuni soggetti scatti un meccanismo di compensazione, per cui la serotonina prodotta spinge all’assunzione di altro cibo, fin quando il meccanismo si blocca. A questo punto il soggetto prende coscienza della situazione e cade nel senso di colpa. Il cibo funge dunque da antidepressivo naturale, ma il meccanismo non funziona totalmente, nel senso che la persona sfugge all’ansia e alla depressione per ritrovarsi con la vergogna e il senso di colpa nel momento in cui realizza di aver perso il controllo. I soggetti affetti da Binge Eating Disorder possono essere aiutati (quando trovano il coraggio di chiedere aiuto) mediante interventi multidisciplinari, caratterizzati cioè dalla collaborazione di più figure professionali, quali il medico, il nutrizionista, lo psicologo e lo psichiatra. Dal punto di vista psicologico, la terapia cognitivo-comportamentale insegna alle persone a controllare l’impulso a mangiare, a cambiare abitudini alimentari e a rispondere allo stress. La psicoterapia interpersonale aiuta invece le persone a riflettere sulla propria storia e sulle proprie relazioni, con lo scopo di rafforzare l’identità personale e quindi la gestione delle emozioni frustranti. La necessità di calmarsi attraverso il cibo si riduce quando l’individuo impara a conoscersi, a riflettere sul proprio funzionamento e sulle proprie emozioni, a trarre fiducia in sé interiorizzando le esperienze positive co-create dal paziente e dal terapeuta nell’ambito della relazione terapeutica.