Voglia di tenerezza!

Voglia di tenerezza: le conseguenze psicologiche del tumore


La malattia neoplastica è un evento che non riguarda solo l’individuo malato ma coinvolge tutte le persone con cui il soggetto entra in relazione, interessando quindi la famiglia, gli amici, i colleghi di lavoro, le istituzioni (medici e altri operatori sanitari) e la società. L’OMS (Organizzazione mondiale della Sanità) ha stabilito che la salute non corrisponde solo all’assenza di infermità o di malattia, ma si identifica più in generale con uno stato dicompleto benessere fisico, mentale e sociale. Il paziente neoplastico si trova ad affrontare la malattia non solo sul piano fisico-razionale, ma anche ad un livello emotivo e relazionale. Numerose ricerche scientifiche dimostrano l’esistenza di una correlazione tra salute e fattori protettivi di tipo sociale come il supporto interpersonale, l’ottimismo, lo stile di vita incline ad adattarsi al mutare delle situazioni individuali. Alcune indagini condotte su pazienti con carcinoma ovarico o della mammella provano che uno stile di vita attivo, un buon supporto sociale e la partecipazione a psicoterapie o gruppi di auto-aiuto contribuiscono a potenziare l’efficacia della chemioterapia. Rivestono una funzione protettiva anche la spiritualità in genere, la meditazione, lo sport, la danza, la musica. E’ il sistema immunitario a determinare la ripresa dopo una malattia e sappiamo che esso è modulato da variabili sia esterne che interne. Le prime riguardano il tipo di agente patogeno o il trauma. Le variabili interne riguardano il significato emotivo che il paziente dà alla propria malattia e come è in grado di gestirla. Perciò ogni tentativo di modulare o meglio di potenziare le variabili interne, che possono stimolare la risposta immunitaria, risulteranno a tutto beneficio del processo di guarigione. Le ricerche condotte sul rapporto tra relazioni sociali e salute dimostrano che l’indice di mortalità aumenta in funzione di una bassa quantità e qualità di rapporti interpersonali familiari e sociali. La sopravvivenza al cancro è ad esempio in diretto rapporto con l’essere sposati e con famiglia rispetto al vivere da soli. Il supporto emotivo è inoltre messo in relazione con una più lunga sopravvivenza dopo una diagnosi di cancro del seno, del colon-retto, del polmone; al contrario quando il paziente è isolato negli affetti (cioè nelle relazioni familiari o sociali) la prognosi diventa più severa.

Le “energie guaritrici”, il “guaritore interno”, altro non sono che il sistema immunitario che deve essere stimolato a funzionare al meglio per difenderci e mantenere l’equilibrio dinamico del benessere. L’intero decorso della malattia è accompagnato da variazioni dello stato umorale e dinamiche psicologiche specifiche, ma tre momenti in particolare appaiono più delicati degli altri. La comunicazione della diagnosi può essere recepita dal paziente e dai suoi familiari come una sentenza. Anche se oggi di tumore si vive e si può anche guarire, spesso il pensiero va diretto alla morte e alla sofferenza. Tornano alla mente esperienze vissute da amici o conoscenti, vengono evocati significati irrazionali sia legati all’immaginario collettivo che alla storia personale. Il paziente e i suoi familiari sono investiti da sentimenti quali l’incertezza, la confusione e la paura. Difficile distinguere quanto tali vissuti siano conformi ai dati reali e quanto invece siano influenzati dall’idea che i diretti interessati si fanno. L’intervento del medico, teso a comprendere e fare chiarezza, può permettere ai soggetti coinvolti di superare l’impasse emotiva iniziale. Ansia e confusione diminuiscono se paziente e familiari ricevono informazioni chiare e dettagliate sulla malattia e sulle possibilità di cura. Decisa la cura inizia la battaglia. I regimi di trattamento (chirurgia, chemioterapia, radioterapia, terapia biologica, etc.,) e alcuni loro effetti collaterali (anemia, nausea, vomito, stanchezza, etc.,) possono limitare la capacità di conservare i contatti sociali. La paura di essere un peso per gli altri, i sentimenti di imbarazzo circa i sintomi o il timore di essere rifiutati possono indurre ad evitare le uscite e ad esitare a chiedere un supporto. Pur essendo questi comportamenti assolutamente comprensibili ed umani, date le circostanze, è consigliabile parlarne con un professionista esperto. La possibilità di “sfogo” offerta da un colloquio libero ed informale può allentare la tensione e le preoccupazioni connesse alla malattia e alla cura. In qualche caso, si può valutare la necessità di intervenire con farmaci (tranquillanti e antidepressivi) e/o con tecniche di rilassamento. La presenza dello psicologo nel processo di cura assicura al paziente ed alla sua famiglia il trattamento anche delle reazioni emotive, spesso causa di sofferenza che si aggiunge a quella fisica.

Durante la fase di cura molti aspetti della vita quotidiana devono essere riorganizzati. Ciò significa un maggior stress e onere di lavoro per familiari ed amici. Sovente è necessario uno scambio di ruoli, che implica la rottura di equilibri costruiti nel corso del tempo. Altre problematiche possono riguardare ripercussioni sul piano economico, specie quando si ammala la persona che percepisce la retribuzione più importante in famiglia o parte degli averi sono utilizzati per il pagamento delle cure. Una situazione particolarmente difficile è quella in cui si capovolge il rapporto genitore-figlio. Il ritorno a casa dopo un intervento chirurgico, così come la fine della chemioterapia, costituiscono momenti delicati in cui molti aspetti della vita acquistano un nuovo significato. Solo a distanza di diversi anni, generalmente oltre il tempo in cui il malato resta sotto sorveglianza, i pazienti riescono a riattivare la proprie energie e ad avviarsi verso una vita ri-progettata, con obiettivi a medio e lungo termine. Quando le terapie non ottengono gli effetti sperati, il paziente può avvertire l’insuccesso come un fallimento personale e il medico come un fallimento professionale. Spesso gli oncologi mettono allora in atto un meccanismo difensivo che porta il nome di “accanimento terapeutico”, allontanandosi, sempre per difesa, dall’esperienza umana del malato. Di fronte alla sconfitta terapeutica occorre invece rimanere accanto al paziente sul piano dell’esperienza emotiva, aiutando lui e la sua famiglia a formulare le scelte più adeguate e dignitose. Avere la consapevolezza che la medicina, anche quella più innovativa non guarisce mai tutti i malati è importante perché è proprio questo limite che spinge medico e paziente ad unire le loro energie per combattere sì la malattia, ma contemporaneamente per restituire sempre valore alla vita residua. La vita di ogni malato, anche quando non è prevista la guarigione, continua qualunque sia la sua lunghezza: è questo residuo di vita che non deve essere mai negato. Parlare di tutto questo, comunicare i problemi e cercare soluzioni permette di mobilitare le risorse personali e familiari, di incrementare il senso di autoefficacia, dare un senso agli eventi, con conseguenze positive sull’umore e la ripresa della vita.